Domenica prossima 11 giugno tradizionale ricorrenza dei Patroni. Rievocazione storica. Alle 18 processione da S. Andrea a Vigo e fino in cat...
Domenica prossima 11 giugno tradizionale ricorrenza dei Patroni. Rievocazione storica.
Alle 18 processione da S. Andrea a Vigo e fino in cattedrale per la messa del vescovo
Festa dei santi Felice e Fortunato
Adispetto del loro nome, i santi Felice e
Fortunato furono martirizzati durante la
persecuzione degli imperatori Diocleziano
e Massimiano. San Cromazio, vescovo di Aquileia (387-408), scrive che tali santi sono ricordati
come “ornamento” della città di Aquileia, proprio
per il loro glorioso martirio. A Felice e Fortunato
era intitolata una basilica aquileiese, sorta fra
il IV e V secolo, a sud della città antica,
in un’area cimiteriale e di tali martiri ne parla, in una composizione,
anche Venanzio Fortunato nel
secolo VI. Secondo la tradizione, erano due fratelli
originari di Vicenza – probabilmente soldati – che
alla fine del III secolo si
trovavano ad Aquileia,
capitale della X Regio
“Venetia et Histria”,
posta al termine
della via Postumia,
che era diventato un
luogo importante
della predicazione del
Cristianesimo. Dalla
“Passio ambrosiana”
emerge che i due,
sorpresi a pregare,
non vollero rinnegare
la propria fede; furono,
perciò, torturati con vari
supplizi, per piegare la
loro volontà e poi decapitati
fuori dal centro abitato, sulle
sponde del fiume Natisone, nel
303. La primitiva comunità cri- stiana aquileiese nel luogo stesso del
loro martirio, ne raccolse i resti mortali
e costruì un edificio di culto attorno al quale si
sviluppò poi un cimitero cristiano. Nella seconda metà del IV secolo, si convenne che Vicenza
avrebbe avuto i resti mortali di San Felice, che
furono poi deposti nel “martyrion” della basilica,
all’uopo costruita, intitolata ai santi Felice e For- tunato, fuori delle mura della città berica, mentre
in Aquileia rimase la salma di san Fortunato, traslata poi a Grado e in epoca longobarda nella città
episcopale di Malamocco. Nel 1110 poi, tali reli- quie pervennero a Chioggia, con il trasferimento
della sede episcopale, sotto il dogado di Ordelaffo
Falier e vescovo di Malamocco Enrico Grancarolo.
Sempre durante il medioevo, si diffuse la convinzione che a Vicenza vi fossero, invece, il corpo di
Felice e la testa del fratello, mentre ad Aquileia
sarebbero rimasti il corpo di Fortunato e la testa
di Felice, come figurava scritto nel martirologio
di Adone, vescovo di Vienne, composto intorno
agli anni 850-60. Nonostante la spartizione delle
reliquie, la memoria dei due fratelli martiri rimase comunque unita, fissata però al 14 agosto
secondo la tradizione aquileiese e al 13 maggio a
Vicenza, vicina invece alla tradizione ambrosiana.
Con la correzione del “Martirologio Romano”, ad
opera del cardinale Baronio, il vescovo di Chioggia mons. Prezzato fissò la solennità del martirio
dei Santi – festa principale – l’11 giugno, conservando la festa del 14 maggio, la cosiddetta “festa
dei Santi delle rose”, come ricordo della traslazione delle reliquie. Il calendario liturgico proprio
della diocesi di Chioggia, attualmente
in vigore, per i nostri santi Patroni,
pone all’11 giugno la solennità
del martirio, mentre al 27 set- tembre il ricordo della traslazione dei resti mortali.
Reliquie di san Felice sono
conservate nell’altare
maggiore della chiesa di
Brognoligo di Monteforte d’Alpone, mentre
a Cologna Veneta,
sempre nel veronese,
i nostri patroni vengono raffigurati come
soldati romani a ca- vallo, nei vari dipinti.
I santi Felice e Fortunato figurano, altresì,
titolari delle chiese di
Fara Vicentino (Vicenza), Reana del Rojale
(Udine), di Gardumo
in Val di Gresta (Trento), di Limena e di Santa
Margherita di Codevigo,
nel padovano, oltre che delle
chiese di Campolongo Maggiore
e di Noale, in provincia di Venezia
e della chiesa di Sissano (Croazia),
quest’ultima risalente all’alto medioevo.
Per la festa dei “Santi”, l’11 giugno, i pescatori
solevano ritornare a Chioggia, a “far la ciosà”, per
onorare i patroni della città e della diocesi, i santi
Felice e Fortunato Mm. Approfittavano della so- sta per cambiare anche l’abbigliamento personale
e per sistemare gli attrezzi delle imbarcazioni che
sarebbero partite poi per la campagna di pesca
estiva. Il giorno della festa si usava mangiare “risi
e bisi”; era ed è tuttora viva la consuetudine di
acquistare giocattoli e dolciumi ad ogni ragazzi- no, dalle numerose bancarelle dislocate lungo il
Corso principale della città da parte dei genitori
e soprattutto dai nonni. Ricordiamo, infine, che
lo slancio di fede e di amore patrio, con il quale
il popolo clodiense accolse nel 1110 le reliquie
dei santi martiri, fu così ardente che ben presto
furono proclamati patroni principali della città e
diocesi.
Giorgio Aldrighetti
Nella foto: Ermolao Paoletti, La Gloria dei santi Felice
e Fortunato, (1891). Cappella dei Santi Patroni, cattedrale di Santa Maria Assunta, (foto concessa dall’Archivio diocesano di Chioggia).
PENTECOSTE
Presso gli Ebrei la festa della Pentecoste
era inizialmente una allegra festa agricola
chiamata “festa della mietitura”. Si celebrava
il 50° giorno dopo la Pasqua e indicava l’inizio della
mietitura del grano. Come per la Pasqua, un gran
numero di Ebrei raggiungevano Gerusalemme
per partecipare alla festa. Ed è in questo contesto
che si colloca la prima Pentecoste cristiana – che
ricordiamo liturgicamente questa domenica 4
giugno – in cui si celebra la discesa dello Spirito
Santo sugli Apostoli e su Maria, completando
così l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento
della sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella B. V. Maria
l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo,
il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Con la sua seconda venuta – durante
la Pentecoste – lo Spirito Santo discende per dimorare nel suo corpo che è la
Chiesa (vedi foto). Ancora nel XIX secolo esisteva in Italia l’uso di far piovere
dall’alto sui fedeli, durante la solenne Messa di Pentecoste, dei petali di rose
rosse, per evocare la discesa dello Spirito Santo. Per questo tale festività
prese il nome anche di “Pasqua delle rose”, termine che si conserva tuttora
in alcune zone del centro e del sud dell’Italia. Tale ricorrenza è celebrata
con particolare rilevanza nel Trentino-Alto Adige, dove – a coronamento
dei festeggiamenti – la domenica dopo Pentecoste si onora il Sacro Cuore
di Gesù, per ricordarne il voto fatto dalle popolazione locali, nel 1796, per
scongiurare l’invasione da parte delle truppe napoleoniche. Da allora, ogni
anno, si svolgono solenni liturgie Eucaristiche, seguite da processioni ricche
di intensa religiosità, mentre al calar delle tenebre, sulle cime dei monti,
vengono accesi fuochi che vogliono sottolineare, diversamente da quanto
avviene in altre località, la devozione della popolazione altoatesina verso il
Sacro Cuore di Gesù. G. Aldrighetti
Petali di rose,
fuochi e processioni
Lunedì 5 giugno
“Santa Barbara”, opera di Giancarlo Grego
A CHIOGGIA IN FONDAMENTA MARANGONI
Festa dell’Arma
dei Carabinieri
Dono ai Marinai d’Italia
Nuovo capitello a S. Antonio
Lunedì 5 giugno ricorre la festa dell’Arma dei Carabi- nieri in quanto, in tal giorno, nel 1920, la Bandiera
dell’Arma fu insignita della prima Medaglia d’oro
al Valor Militare, per la partecipazione dei Carabinieri
alla prima guerra mondiale. La motivazione che ha accompagnato l’ambita decorazione è la seguente: “Rinnovellò le sue più fiere tradizioni con
innumerevoli prove di tenace attaccamento al dovere e di fulgido eroismo,
dando validissimo contributo alla radiosa vittoria delle armi d’Italia”. A
tal riguardo, ricordiamo che la città di Chioggia il 23 marzo dello scorso
anno, ha conferito la cittadinanza onoraria a tale benemerita Istituzione
proprio: “per l’alto senso del dovere e la costante e preziosa presenza…”.
Nello stemma dell’Arma, poi, troviamo negli smalti e nei simboli che vi
figurano caricati, tutti gli ideali ed i valori che contraddistinguono tale
eletto Corpo militare dello Stato. Nell’azzurro, il valore, l’amor patrio e la
fedeltà, mentre nel di rosso, l’ardimento, il coraggio e il sacrificio. Il leone
caricato al capo, indica, invece, la determinazione con la quale viene assi- curato il buon governo, mentre l’albero del rovere simboleggia l’antichità, il
rinverdimento, l’animo forte e guerriero. Il serpente indica, invece, cautela,
mentre la mano che lo stringe allude al carabiniere che sconfigge il male. La
granata fiammeggiante, infine, ricorda il primigenio simbolo di tale Arma,
da sempre amata da tutti gli Italiani. Parlando ancora di tale stemma, con
grande nostra sorpresa e stupore, ne abbiamo casualmente “scoperto” uno,
nella locale Stazione dei Carabinieri, a dir poco, di eccellente fattura (vedi
foto) – su scudo mistilineo di legno compensato – dipinto nei ritagli di tem- po, in due mesi di lavoro, dall’ottimo “artista” carabiniere scelto Alessandro
Verrone che, oltre alle sue spiccate doti di servitore dello Stato, annovera
anche eccelse e non comuni doti nel dipingere. G. Aldrighetti
L’ex allievo don Bosco, Giancarlo Grego – da
tutti conosciuto però con il sopranome
di Muci – classe 1931 e quindi 86 anni,
splendidamente portati, dopo una vita faticosa
da muratore, ha sviluppato la sua innata passione
per il “bricolage”, costruendo un’infinità di “sou- venir”, a prevalente soggetto religioso, con par- ticolare riguardo a don Bosco e a Maria Ausiliatrice, che offre in dono a
sacerdoti ed amici. Avendo svolto il servizio militare in Marina, a bordo
della nave “Baionetta”, non ha dimenticato, ovviamente, Santa Barbara
(vedi foto), la cui bella composizione figura nella sede dei Marinai d’Italia
di Chioggia. G. A.
Casualmente, passando per
la Fondamenta Marangoni,
con grande piacere, abbia- mo osservato un nuovo capitello
collocato nel campo a fianco
dell’ingresso del ristorante “La
sgura”, raffigurante sant’Anto- nio da Padova (vedi foto). Siamo
venuti così a conoscenza che la
bella idea di un nuovo capitello
è stata del proprietario di tale
esercizio pubblico, il sig. Lucio
Carisi, che ha commissionato
la bella edicola religiosa – carica
di colori – al sig. Vanni Doria.
Rimanendo nel tema della pietà
popolare, ricordiamo che già nel
Settecento così si esprimeva Pio
VI: “Si trovano presso il popolo
espressioni particolari della ricerca di Dio e della fede; per lungo
tempo considerate meno pure,
talvolta disprezzate”. “Pietà po- polare” e “religiosità popolare”
sono espressioni diverse che, nel
tempo, hanno finito per designa- re la stessa cosa: manifestazioni
di fede semplice che partono dagli
strati, sovente, più umili della popolazione. La religiosità popolare
ha riti, simboli e linguaggi propri
che esprimono purezza e spontaneità, ma che sono lontani dalla
casualità o dall’improvvisazione.
Sono riti profondamente radicati
nella cultura popolare e anche per
questo consentono un approccio
più semplice alla religione, incarnando la spiritualità profonda
della gente. Ancora una volta,
quindi, Chioggia non si smentisce. Giorgio A
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